Cremona è debitrice per molte cose alla gastronomia ed alla scienza islamiche del Medioevo (vedi l’influenza araba a Cremona). Una di queste sembra proprio essere il torrone. Innumerevoli tipi di torrone inoltre, dal “qabut” alla “halva”, sono tutt‘oggi diffusi nella “mezzaluna islamica”, dalla Spagna a Samarcanda. Nei manoscritti di tre medici arabi dell’XI e del XIII secolo (uno dei quali tradotto nel Duecento a Venezia da un cremonese) si trovano le ricette del “chaloe” e della “qubbayt”, precursori del dolce tipico di Cremona, probabilmente diffuso in città, anziché dal banchetto nuziale di Francesco Sforza, dai banchetti nuziali della magna curia del “filoislamico” Federico II, dal cui compleanno (26 dicembre) potrebbe derivare la tradizione di mangiare torrone a Natale.
Mentre sembra un falso storico la leggenda del “turùn” contenuto nel manoscritto di un medico arabo di Cordova, portato a Cremona dal traduttore Gerardo nel XII secolo.
CREMONA – Da più parti si sono più volte sottolineate le orientali del torrone, accanto a quelle romane. Proveremo dunque a spingerci oltre le placide acque del Po, fuori dalla nebbia della pianura padana che avvolge la leggenda del dolce a forma di torre, metafora della città che Bianca Maria Visconti portò in dono a Francesco Sforza in quel lontano 25 ottobre del 1441. Nelle calde terre della “mezzaluna” dell’antico impero arabo infatti, da Alicante a Samarcanda sono tutt’oggi diffusi vari tipi di torrone (dal turròn, alla qabut marocchina e tunisina, sino alla halva sulla Via della Seta) che affondano le radici della propria storia nel medioevo, al tempo dell’espansione islamica.
DA BAGHDAD, GIOIELLO DELL’ISLAM: I TRATTATI MEDICI DI IBN BUTLAN E IBN JAZLA
Nel Medioevo, sotto la spinta dell’espansione islamica irradiatasi dalla penisola arabica, la cultura arabo-persiana (poesia, filosofia, matematica, astronomia, ottica, ecc.) si diffuse in tutto il mediterraneo, e con essa anche la medicina islamica, che accolse il retaggio della medicina greca e persiana integrandolo con nuove scoperte. La medicina islamica, completa e sofisticata, con metodi diagnostici e terapeutici altamente sviluppati assieme una ricca farmacologia, riservava grande spazio alla dietetica umorale. Nella cultura islamica il cibo si trovava infatti al centro d’interessi che fanno riferimento alla medicina, alla cura del corpo e al desiderio di “star bene” (gli stessi presupposti sui quali, nel 1475, si incardinerà il De honesta voluptate et valetudine del grande umanista piadenese Bartolomeo “Platina” Sacchi). Tra il IX e il XII secolo, dall’Andalusia a Baghdad fiorirono i manuali della buona salute e i compendi di medicinali composti o di alimenti usati come medicinali semplici (a cominciare dal Canone di Avicenna). E proprio in due di questi trattati, scritti da due funzionari medici, si trovano le ricette di un tipo di dolce secco che è il diretto precursore del moderno torrone. Si tratta dei Tavole della salute di Ibn Buṭlān, e del Cammino dell’esposizione di ciò che l’uomo utilizza di Ibn Jazla (entrambi di Baghdad).
Nelle Tavole di Butlan e nel Cammino di Jazla (cristiano convertito all’Islam), composte nel califfato abbaside di Baghdad nell’XI secolo, nella parte riservata ai dolci secchi compare il Chaloe (in arabo halawa), indicato per febbri, tosse o dolori reumatici: dalla ricetta risulta preparato con noci, mandorle o pistacchi («cum nucibus aut amygdalis aut festicis») legate da miele e zucchero (miscentur cum melle et zaccharo) e aromatizzate con spezie. Manca l’albume, ma la variante bianca è ottenuta tramite il processo di lavorazione dello zucchero, come si legge nel Compendio delle vivande (Kitab al-Tabikh) del medico Al-Baghdadi, vissuto nel XIII secolo (due secoli dopo Butlan e Jazla): «Sciogli lo zucchero in acqua e fallo addensare bollendo, poi versalo su un piano, battilo e tiralo finchè diventa bianco, impastaci pistacchi o mandorle, taglialo in stecche o rombi e dallo a chi vuoi». Lo stesso tipo di torrone (chiamato ancora halva, dall’antico nome arabo di halawa) fa tutt’oggi bella mostra in mille versioni sui banchi dei bazor tra Iran e Uzbekistan, lungo l’antica Via della Seta. E all’antico Chaloe si richiamano anche il torrone dell’Iran, il Gaz of Khunsar, e quello dell’Iraq, chiamato Mann-Al-Sama.
Osservando la ricetta del Chaloe le Tavole di Butlan, si nota che accando a Chaloe è accostato il termine Cubaia, riconducibile a “Cubaita”: varrà la pena ricordare che “Cubaita” (da qubbayt, “mandorlato”) è uno dei due nomi del torrone impiantato in Sicilia proprio dagli arabi Fatimidi (l’altro nome è Giuggiolena, da dgjundjulàn, “sesamo”). Ma qubbayt è anche il nome (oggi qabit o qabut) di un delizioso torroncino composto da miele e semi oleaginosi da inserire in sfoglie di raguifes (raguif è la schiacciata di pasta), nominato in un anonimo manoscritto maghrebino del XIII secolo (il cosiddetto Libro Magherbino, tradotto da Alonso Huici Miranda) e diffuso tutt’oggi in Marocco e Tunisia.
Ora, non si può escludere che i due trattati in questione fossero conosciuti a Cremona sin dal XIII secolo. Ottanta ricette del Cammino di Jazla, tra cui il Chaloe, si trovano infatti rese in latino nel noto Liber de ferculis et condimentis, redatto a Venezia nella seconda metà del XIII secolo da Giambonino da Cremona (medico e docente di filosofia all’Università di Padova, originario di Gazzo secondo Enrico Carnevale Schianca). E le Tavole di Butlan, tradotte inizialmente alla corte siciliana di Re Manfredi, potrebbero essere giunte a Cremona nella splendida versione miniata a Milano da Giovannino de’ Grassi nel XIV secolo.
IL TURUN ANDALUSO: UN FALSO STORICO
Una tradizione piuttosto diffusa ritiene che il torrone possa essere giunto a Cremona nel XII secolo anche dalla Spagna islamica (il califfato di Al-Andalùs). A Toledo, nella prima metà dell’XI secolo, Abenguefith Abdul Mutarrif, medico, farmacista e vizier di Al-Mamùn (sovrano delle Taifas di Toledo e Valencia), scrisse il Libro dei medicinali semplici (Kitab al-Adwiya al-Mufrada): si tratta di un compendio dietetico delle virtù salutari e terapeutiche di molti cibi (a partire dalle opere di Dioscoride e Galeno). Secondo una tradizione assai condivisa in rete e contenuta anche nel sito del Consejo Regulador del torrone di Jijona e Alicante (senza però alcun riferimento testuale agli originali arabi), quando nel proprio compendio Abenguefith arriva ad esaltare le virtù terapeutiche del miele, citerebbe un dolce secco chiamato in arabo “turùn”, composto di mandorle tostate, miele, zucchero e acqua di rose. Nel secolo successivo il Libro dei medicinali semplici di Abenguefith fu tradotto in latino da Gerardo da Cremona, attivo a Toledo tra il 1140 e il 1170. Quando Gerardo morì, la sua ricchissima biblioteca di traduzioni arabe fu trasportata a Cremona, nella chiesa di S. Lucia, inclusa la traduzione latina del trattato di Abenguefith, dal titolo “Liber Abenguefiti de virtutibus medicinarum simplicium et ciborum”. Alcuni ritengono quindi che il turùn di Abenguefith abbia ispirato il torrone di Cremona attraverso la traduzione di Gerardo.
Ma riguardo a questa ipotesi vanno avanzate almeno tre osservazioni. In primo luogo, Gerardo non tradusse l’intera opera del medico arabo, ma solamente la prima parte, nella quale non compaiono affatto né ricette di dolci secchi né tantomeno il nome turùn. Secondariamente, il nome turùn e la ricetta del dolce tanto chiacchierato non compaiono neppure nella copia dell’originale arabo di Abenguefit più integra che ci sia giunta, la cui edizione critica è stata pubblicata da Luisa Fernanda Aguirre de Carcer della Universidad Complutense de Madrid, con il titolo El Libro de los medicamentos simples (vero è, d’altra parte, che il testo arabo è comunque guastato da numerose lacune e che la ricetta potrebbe essere stata contenuta proprio in qualcuno di questi passi mancanti). Pertanto, la ricetta del turùn di Abenguefith rischia di fare la stessa fine del secondo libro della Poetica di Aristotele: perduta o mai scritta? Effettivamente vi è in arabo un termine che assomiglia a turùn, ed è tùrunj (lo nomina Anna Martellotti ne La gastronomia araba in Occidente): ma significa “arancio”, “cedro” e non ha nulla a che fare con il torrone (da esso si origina la torongia, frittella o arancino tipico della cucina siciliana).
IL PRIMO TORRONE CON ALBUME NACQUE NELLA SPAGNA ARABA
E’ possibile che nella leggenda del turùn vi sia un fondo di verità. Occorre partire da un anonimo manoscritto magrebino di epoca medievale (il Kitab al-tabij fi-l-Magrib wa-l-Andalus fí asr al-Muwahhidin), stranamente poco o per nulla considerato dagli studiosi italiani, del quale esistono due sole traduzioni in lingue moderne: quella di Ambrosio Huici Miranda (Traducción española de un manuscrito anónimo del siglo XIII sobre la cocina hispano-maghrebi) e quella di Charles Perry (The Anonymous Andalusian Cookbook). Il manoscritto, prodotto nella Spagna del XIII secolo, riporta circa cinquecento ricette arabe di epoca almohade diffuse in area iberica prima della Reconquista cristiana, inclusa quella di un dolce secco definito in arabo Mu’aqqad, del quale riportiamo la ricetta integrale nella traduzione del Perry: «Mu’aqqad con il miele: metti una porzione di miele di favo a fuoco moderato finché non si scioglie, quindi filtralo e rimettilo al fuoco (rimuovendo la schiuma). Quindi sbatti [a neve] gli albumi di venticinque uova se il miele è filtrato e trenta se non lo è, quindi gettali nel miele. Mescola il composto con una frusta da pasticceria fino a farlo sbiancare ed addensare [sul fuoco]. Infine aggiungi una rati [libbra] di mandorle pelate e, una volta rappreso, servilo, a Dio piacendo» («Put a portion of comb honey on a moderate fire until it dissolves, then strain it and return it to the fire [removing the scum]. Then beat [stiff] the whites of twenty-five eggs, if comb honey, and thirty if not, and throw them into the honey. Beat the mixture with a confectionery whip until it whitens and thickens [over the fire]. Then throw in a rati [1 raf/=468g/1 lb] of peeled almonds and serve it, God willing»). Il valore di questo manoscritto è inestimabile ai fini della storia del torrone: è il primo testimone medievale che si conosca a menzionare la variante del torrone contenente, assieme al miele ad alle mandorle, anche la chiara d’uovo.
E’ questa la variante dalla quale derivano i torroni storici di Castuera, Jijona ed Alicante. Ed è assai probabile che questo dolce fosse il chiacchierato turùn. Non si trovava nel trattato di Abenguefith e non doveva chiamarsi turùn (termine che non compare in nessun manoscritto arabo medievale di area iberica), ma, appunto, Mu’aqqad: il nome turùn, più che all’arabo, è avvicinabile ai volgari romanzi, dal momento che può essere messo in connessione con il verbo latino torrere («disseccare, cuocere, tostare»), e con il suo derivato spagnolo turràr; e proprio da turràr, secondo il Tesoro della lingua castigliana composto nel 1611 da Sebastián de Covarrubias, deriverebbero le parole turròn e torrone. Il termine turùn, se mai esistette, potrebbe essere stato il primitivo nome con cui il dolce arabo padre del torrone iniziò ad essere indicato nei volgari delle popolazioni iberiche tra XII e XIII secolo (oppure, assai meno verosimilmente, gli arabi di Spagna si servirono, arabizzandolo, di un termine del volgare iberico per indicare il proprio dolce mandorlato). Ad ogni modo, siffatta questione linguistica non dovrebbe affatto stupire in un’area dove in epoca medievale, prima e dopo la Reconquista, una tolleranza ed una civiltà ben maggiori di quelle odierne permisero una straordinaria commistione tra le culture araba, ebraica e cristiana.
DALLA SPAGNA A CREMONA
Spostandoci ora all’ombra del Torrazzo, si può ben constatare come la variante araba con albume contenuta nel manoscritto magrebino, presenti una costituzione sorprendentemente identica a quella del torrone che sarebbe stato inventato due secoli dopo a Cremona, per la tavola del banchetto nuziale di Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza. Secondo la nota leggenda (risalente probabilmente non all’Umanesimo bensì all’inizio del secolo scorso), il torrone sarebbe nato grazie all’estro di uno chef de cuisine che il 25 ottobre 1441 ideò per l’occasione un dolce a base di miele, albume d’uovo e mandorle che riproduceva il Torrazzo (mentre la presenza del torrone cremonese nei documenti non risale a prima del ‘500). Si riteneva che in realtà già dal Medioevo in città circolasse un tipo di torrone (portato da Federico II e dalle traduzioni dall’arabo) la cui ricetta non prevedeva l’utilizzo dell’albume (quindi più simile a un croccante) e che perciò a Cremona fosse spettata la palma di aver aggiunto la chiara d’uovo, dando avvio così alla storia del celebre turòon. Ma la verità sconvolgente del “manoscritto magrebino” retrodata l’invenzione della variante con albume di almeno tre secoli, collocando anche l’origine di questa variante in ambito islamico. Per capire come tale variante sia giunta a Cremona (dato che non si trova in nessuna delle traduzioni dall’arabo prodotte alla corte di Federico II, né in quella di Giambonino da Cremona) occorrerà considerare gli intensissimi commerci (tra XII e XIV secolo la potenza economica di Cremona era all’apice e qui giungevano merci da tutto il Mediterraneo), unitamente ai frequenti rapporti intrattenuti con la Spagna durante il Basso Medioevo. Fra XIII e XIV secolo la variante con l’albume deve aver preso piede in città con diffusione sempre maggiore, sostenuta verosimilmente dall’antica consuetudine delle spezierie cittadine di radunare a fine giornata gli albumi, avanzati dalla mescita del tuorlo d’uovo all’ostrica, i quali venivano poi uniti al miele di erbe mediche ed alle mandorle tostate (inizialmente il torrone in città venne prodotto proprio nelle spezierie, oltre che nelle case).
LA PRIMA COMPARSA DEL TORRONE A CREMONA: sul banchetto nuziale di Francesco Sforza o sui banchetti (nuziali) della magna curia cremonese di Federico II?
Se è quasi certo che il torrone fosse già conosciuto a Cremona ben prima del XV secolo, vi doveva essere senz’altro giunto, come si è visto, dall’Oriente e dalla Spagna. Ma è probabile i prototipi arabi di specialità orientali come torrone (e i marubini – leggi l’articolo) abbiano trovato stabile diffusione a Cremona anche con il “filoislamico” Federico II di Svevia: l’“epicureo”, “eretico” e scomunicato sovrano che Dante pose nel X cerchio dell’Inferno, assieme a Bonifacio VIII e a Cavalcante (il padre del grande stilnovista). Dal 1220 al 1250 l’imperatore, appoggiato dal vescovo Sicardo, aveva eletto la città capitale pro tempore del Nord Italia e quartier generale dell’esercito imperiale (del quale facevano parte anche numerosi squadroni di arcieri saraceni di Lucera). Pur non potendo vantare la stessa importanza e magnificenza delle corti di Napoli e Palermo, Cremona ospitò Federico ben sedici volte nella prima metà del Duecento, alloggiato in un palazzo imperiale nei pressi del monastero di S. Lorenzo (altri sostengono di S. Luca) ed attorniato dalla sua corte di intellettuali islamici provenienti dai grandi califfati abbasidi di Baghdad (parecchie pagine sono dedicate a Cremona dallo storico Ernst Kantorowicz nella Biografia del sovrano): tra costoro v’erano anche numerosi gastronomi e cuochi che devono quindi aver operato diffusamente anche all’ombra del Torrazzo. Spesso infatti la presenza imperiale si accompagnava a feste e cerimonie di grande lustro, inclusi banchetti nuziali. Federico celebrò a Cremona una magna curia – un’assemblea di tutta la sua corte – con grandi feste dopo il matrimonio di sua figlia, Selvaggia di Svevia, con Ezzelino da Romano; e ancora a Cremona l’imperatore procedette all’addobbamento del figlio Enzo nel 1238, e di alcuni nobili lombardi nel 1245, mentre nel gennaio 1249 si celebrarono le seconde nozze di Enzo. Ora, conoscendo l’infatuazione dell’imperatore per la cultura araba (inclusa la gastronomia) e considerando il suo staff di cuochi islamici, non è difficile inferire la presenza, in questi banchetti, di specialità esotiche provenienti dai califfati persianizzati d’Oriente. A questo punto, tenuto conto di quanto già riportato, potrebbe risultare più credibile che il torrone possa essere comparso a Cremona, nella sua forma primitiva, proprio sulla tavola di uno di questi banchetti nuziali dell’epoca federiciana, piuttosto che su quella quattrocentesca del matrimonio tra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza. Contestualmente, si potrebbe anche ipotizzare che la tradizione di mangiare torrone a Natale possa essere ricondotta ad un dolce esotico con in quale Federico usava festeggiare il suo compleanno, che cadeva proprio il 26 dicembre.
E’ definitivamente assodato quindi che il torrone cremonese non fu inventato a Cremona, in occasione del matrimonio quattrocentesco. Piuttosto (ammesso che la leggenda cremonese abbia un fondo di verità) in quell’occasione esso deve aver rappresentato, agli occhi dei gastronomi cremonesi, il dolce con la costituzione più idonea per la creazione di una torre che non rischiasse di crollare addosso agli sposi (del resto chi costruirebbe una torre di pan di spagna o di frolla?). Non vi sono documenti sulla leggenda cremonese, ma sappiamo che nell’anno 1529 fu effettivamente servito ad un banchetto un dolce a forma di torre, non è dato di sapere se di torrone o altra costituzione (lo riporta Cristoforo di Messisbugo, cuoco, scrittore della Casa de Este e organizzatore di sontuosi banchetti). E non è da escludere che la trouvaille gastronomica cremonese, se esistita, sia stata concepita per condensare nel medesimo nome il duplice riferimento al dolce secco (discendente dal latino torreo e dalla variante araba di Spagna) ed alla forma della “Grande Torre” che ha reso Cremona famosa nel mondo.
di Michele Scolari
pubblicata su Il Piccolo, edizione del 19 ottobre 2013
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8 novembre 2013 at 14:28
Ciao Michele, complimenti, hai fatto una bellissima sintesi di quanto Cremona sia debitrice all’Islam di buona parte della propria cultura artistica e gastronomica. Ma purtroppo quando si invitano i nostri emeriti storici a guardare un po’ più al di là del proprio naso, si rischia sempre di far la figura dell’eretico perchè non ci si allinea al pensiero comune. Guarda, quando trent’anni fa lanciai l’ipotesi che il Torrazzo derivasse da prototipi arabi, molti eminenti cremonesi mi guardarono quasi con compatimento. Oggi è una tema ormai acquisito. Non da tutti, ma da molti. Vai avanti così
Fabrizio
8 novembre 2013 at 15:44
Ti ringrazio, e, detto da te, fa doppiamente piacere.
Non mi ferma nessuno. Il mio presupposto rimane il precetto plutarcheo secondo cui «quando i concetti comuni assodati e familiari cessano di convincere, è necessario avere il coraggio di tentar vie fuori mano». Mi vergognerei di me stesso e della mia laurea se non fosse così.
Del resto si sa che, da un certo momento storico in poi (come avevi ricordato in quel video realizzato dopo la sospensione delle pubblicazioni a Cronaca), la polifonia di voci (anche umoristiche) che aveva caratterizzato la nostra cultura cittadina sino a quel momento è stata spazzata via. Oggi, per quanto riguarda la cultura “ufficiale” Cremona è ancora una “bella addormentata” e, paradossalmente, è bloccata in una dialettica differenziale: tanto immobile a livello della cultura “ufficiale” (di cui fanno parte anche alcuni storici “da furto” che ben conosci) quanto viva e brulicante a livello “underground”.
Non mi stupisce ciò che ti accadde con la tua teoria del Torrazzo. Nè mi stupisce che, guardando i risultati sul mio blog e sul sito web del giornale, questo approfondimento sia stato seguito con interesse da centinaia di persone, ma per la maggiore fuori Cremona. E la stessa cosa mi accade anche per gli approfondimenti storici a partire dalle uscite con Cremonasotterranea (salvo poi vedermeli copiare su siti web e pagine facebook di gente che li aveva snobbati). Addirittura in un recente libro pubblicato a Cremona sono magicamente spuntate quelle scritte dei condannati a morte incise sul battistero, alle quali avevo dedicato un ampio servizio, con tanto di foto, sul Piccolo di un anno fa (quindi un anno prima che quel libro uscisse).
Il problema a Cremona è che se le idee non sono veicolate attraverso un certo canale cartaceo ben preciso, è come se non esistessero. Ma anche questa logica si sta lentamente sgretolando, prova ne sia (ad esempio) l’inserimento di questo studio nella newsletter di Fieschi. Che dire? Il giornalista dev’essere un po’ come il tafano socratico: punzecchiare e pizzicare… anche a costo di farsi odiare un po’.
12 novembre 2013 at 13:32
Credo possa valere anche per il grande Gherardo da Cremona quell’epitaffio che Alfonso Traina scrisse per la commemorazione di San Benedetto: “Taenebrescenti saeculo illuxit” (“portò la luce in un mondo che stava per sprofondare nelle tenebre”). Quando l’Europa era ridotta ad un ammasso di rovine dopo il passaggio dei “barbari”, quando si battezzava “in nomine patris et filiae” (perché neppure i prelati sapevano più il latino), quando si curavano i malanni con offerte votive anziché con erbe e medicamenti, furono gli uomini come Gherardo e Costantino l’Africano (assieme ai monaci irlandesi come San Colombano) a riaccendere i fari della cultura in Occidente, leggendo e traducendo lo straordinario bagaglio di conoscenze degli “arabi” (in realtà, come qui è stato giustamente sottolineato, era una commistione di elementi greci, ebraici e della più antica tradizione persiana e indiana). Spero di leggere presto altre cose altrettanto interessanti.
12 novembre 2013 at 13:39
La ringrazio e di cuore. Non so chi Lei sia, ma se è chi penso io, non devo ringraziarLa soltanto per il commento… Fa sempre piacere sapere che il proprio lavoro è apprezzato, sia dentro che fuori dalle mura cittadine.
Conosco bene quell’epitaffio che ha citato. Ho studiato a Bologna e sono stato allievo di Alfonso Traina (oltre che dell’attuale rettore Ivano Dionigi) e devo dire che se oggi riesco non solo a tradurre quasi simultaneamente un testo o un’iscrizione, ma anche a comprendere l’etimologia di innumerevoli parole italiane o ad intuire subito la sintassi di un testo italiano dal Boccaccio a Manzoni, lo devo a questo straordinario magistero. La ringrazio e non dubiti: leggerà ancora.
22 novembre 2013 at 14:27
sembra che qui ci siano dei documenti scritti più che delle leggende 🙂 benebene. Addio Visconti e Sforza?
22 novembre 2013 at 14:29
il “turùn” è buffo, sembra un dialetto lombardo e invece… speriamo di vedere presto un bel libro su queste cose…
22 novembre 2013 at 14:33
è veramente meraviglioso, cioè è semplicemente sbalorditivo aver mangiato mostarda, marubini e torrone per anni senza sapere che venivano dagli arabi. ma non l’avranno mica fatto apposta i nostri storici locali a non dire queste robe vero? magari erano daccordo coi produttori locali??? hahahaha, no scherzo…
30 novembre 2013 at 22:09
Menomale che alcuni giornali cremonesi hanno definito Cremona la patria del torrone… alla faccia della “patria”…
22 dicembre 2014 at 22:16
Nemo propheta est in patria. Alias: Cremona è un quieto stagno lombardo (con buona pace del paesino omonimo).
29 giugno 2016 at 18:25
ma per favore.. Sicuramente anche le Big Babol , gli Spaghetti allo scoglio , la Pizza e il Sangiovese sono Arabi.. Ma vi rendete conto di ciò che dite? Qualsiasi persona con un buon uso delle parole , e con un po di carisma, riuscirebbe a farvi credere senza uno straccio di prova che “questo” derivi da “quello”. Ma avete qualche straccio di prova? Oppure volete solamente screditare la gastronomia Cremonese attribuendone il merito dell’invenzione agli Islamici ? Un po come la Pasta ( si trattava solo di acqua e farina )e le forchette (solo un rametto con 2 biforcazioni )inventate dai cinesi..
30 giugno 2016 at 14:20
Qui nessuno si è concentrato sulla pasta (i temi sono altri) e nessuno ha asserito insindacabilmente ma soltanto ipotizzato la provenienza islamica dei ravioli e del torrone; e comunque, tutte le ipotesi sono condotte a partire da documenti scritti (i trattati medici arabi, che peraltro sono citati anche da numerosi studiosi universitari, e le loro traduzioni latine, mi paiono “stracci” dalla metratura piuttosto ampia, anche se non ci danno la certezza assoluta, peraltro inesistente in storia).
Per quanto riguarda il “carisma” o il “buon uso delle parole”: lo stile del mio scritto mi pare assai impersonale; se Lei non è in grado di distinguere la funzione referenziale della lingua dalla sua funzione poetica o espressiva, sono affari suoi: ma almeno non dica fesserie.
Inoltre, non mi pare si dica che I RAVIOLI o IL TORRONE siano arabi ma che IL RAZIONALE dei ravioli o del torrone potrebbe avere una parentela mediorientale.
Se Lei non condivide, porti lei qualche “straccio” di controprova: il solo sarcasmo sarà pure coreografico ma scientificamente non vale nulla.
Una curiosità: perché secondo Lei l’eventuale provenienza islamica delle matrici di ravioli o torrone dovrebbe “screditare” la cucina cremonese? E’ un’esternazione che rischia di essere molto ambigua, se non peggio… forse Le converrebbe definirla in modo più preciso…
E forse Le converrebbe firmarsi con nome e cognome: sarebbe più credibile, oltre che più intellettualmente onesto.
16 novembre 2016 at 18:09
Ho letto con molto interesse l’articolo, sopratutto perchè sto studiando l’evoluzione del torrone sardo, l’unico che mantiene la ricetta senza zucchero.
Secondo lei sarebbe possibile che abbia mantenuto la tradizione della ricetta romana (citata da Tito Livio come “cuppedo” oppure “nucatum”, da Marco Gavio “Apicio”)?
La mia domanda viene perchè capisco che tutti torroni arrabi contengono comunque zucchero (era più economico di sicuro).
grazie, Manuela