Torrone, marubini, tortelli cremaschi, mostarda, Torrazzo, una ricca biblioteca perduta di testi arabi, due traduttori dall’arabo e la corte di un imperatore “filoislamico”
Cremona è debitrice per molte cose alla gastronomia ed alla scienza islamiche del Medioevo. Una di queste sembra essere il torrone. Nei manoscritti di tre medici arabi dell’XI secolo (tradotti nel Duecento da due cremonesi) si trovano infatti le ricette del “turùn” e del “chaloe”, precursori del dolce tipico cremonese (leggi l’approfondimento). Innumerevoli tipi di torrone inoltre, dal qabut alla halva, sono tutt‘oggi diffusi nella “mezzaluna islamica”, dalla Spagna a Samarcanda. Ma il torrone non è certo l’unico elemento ad essere verosimilmente giunto a Cremona, attraverso un tortuoso percorso, dalle terre dell’Islam (leggi l’approfondimento). Molti tipi di dolci e svariati tipi di pasta sono arrivati in Italia dall’Oriente nel Medioevo (ad es. spaghetti, lasagne, ravioli).
Negli anni ’80 la prof.ssa Elda Fezzi (in Cremona, lo stile di una città, 1983) aveva ben sottolineato le vistose e numerose analogie del Torrazzo di Cremona con i minareti almohadi nordafricani e spagnoli: da un lato con la Torre della Giralda di Siviglia (parte di una moschea costruita nel periodo almohade) e dall’altro con le torri delle moschee marocchine di
Hassan a Rabat e di Koutoubya a Marrakech. E, per inciso, è difficile non notare nel campanile del Duomo di Crema vistose analogie con ciascuna della quattro torri in stile mudejar della città di Teruel, in Spagna.
Contestualmente, la mostarda (a parte l’elemento della senape piccante) richiama troppo da vicino l’estro di forme e colori della tradizione della frutta candita e sciroppata di matrice orientale (in particolare arabo-persiana). Del resto, si sa che i veri precursori della canditura moderna sono gli arabi, che servivano frutta sciroppata assieme ad agrumi e rose candite nei momenti topici dei loro banchetti. Con la dominazione araba di parti del Sud Europa (in primis la Sicilia e la Spagna), la canditura si fece strada in Occidente. E la stessa parola “candito” viene dall’arabo qandat, derivato a sua volta dal
sanscrito khandakah.
E i marubini? Ebbene, in un saggio di Anna Martellotti del 2001 (La gastronomia araba in Occidente nella trattatistica dietetica – Schena Editore, 2001) viene evidenziato come nel Liber de ferculis et condimentis scritto sul finire del XIII secolo da Giambonino da Cremona (dove si trova anche la ricetta del Chaloe, uno degli antenati orientali del torrone), compare anche il precursore islamico di molti tipi di ravioli italiani (introdotti nella Pianura Padana intorno al XII secolo), compresi i marubini cremonesi (leggi l’approfondimento): è il sambusuch, prelibato tipo di pasta triangolare all’uovo riempita con un trito di carni speziato (chiamato Mudacathat kafuriya, ossia “trito di Kafur”), descritto sia nel Cammino
dell’esposizione del medico iracheno Ibn Jazla, sia nelle Tavole della salute del medico Ibn Buṭlān (entrambi vissuti nell’XI secolo). Di origine probabilmente indiana e diffusa nei califfati arabi tramite la mediazione persiana, questa sfoglia ripiena antenata del raviolo è diffusa ancor oggi tra Iran e Arabia Saudita con i nomi di Sanbusaj (persiano Sanbusak) o Samosa (vedi foto). Ed il rimedio (remotio nocumenti) ad un’indigestione di sambusuch ripieno di mudacathat è indicato da Giambonino (a partire dal testo arabo) con «acqua di sommacco» (infuso ottenuto dai frutti di una pianta delle anacardiacee, Rhus Coriaria, i quali, spremuti, davano un succo agro simile al limone).
Allo stesso modo, una suggestiva somiglianza (nella ricetta e nella forma) si nota anche tra l’antico sambusuch e i tortelli di Crema, città vicino a Cremona (vedi le due foto accanto). Addirittura, la ricetta del ripieno dei tortelli cremaschi risulta ancor più orientaleggiante di quella dei marubini cremonesi: essa contiene amaretti, mostaccini (biscotti speziati con dentro Armelline di Damasco, ovvero piccole mandorle contenute nei noccioli delle albicocche – frutto introdotto in Occidente dagli arabi), uvetta, menta e noce moscata: il tutto sapientemente amalgamato in un delicato equilibrio di sapori che richiama il tipico gusto arabo-persiano per le miscele dolci-salate. E non può senz’altro sfuggire, in questo senso, la lunga appartenenza di Crema ai territori veneziani: nel 1449 infatti la città si consegnò alla Serenissima Repubblica, costituendo la terra più occidentale dello Stato di Terraferma (come ancora sta a testimoniare dall’alto della Torre Pretoria il Leone di San Marco, che regge il Vangelo con la scritta Pax tibi Marce, evangelista meus). Anche attraverso questa appartenenza a Crema circolarono spezie, canditi, uva passa, zucchero e vini dolci. E’ possibile dunque che i tortelli siano stati elaborati a Crema da queste pregiate risorse, sulla scorta di qualche ricetta giunta in città nel ’400 da Venezia, della quale si ricordano i legami con Bisanzio e l’Oriente, nonché i rapporti instaurati con i centri commerciali arabi durante e dopo le Crociate. Ma forse si potrebbe andare ancor più indietro, sino al XIII secolo, quando il già citato Giambonino da Cremona tradusse in latino 80 ricette del Cammino dell’esposizione del medico iracheno Ibn Jazla, che già conteneva la ricetta del sambusuch, l’antenato orientale dei ravioli.
Giambonino, noto ai ricercatori come Cremonensis ma originario di Castelnuovo Bocca d’Adda (“natus tamen in Castronovo Buce Adue” recita l’explicit del suo Tractatus de conservatione sanitatis) , docente di filosofia a Padova, doveva essere un medico, come sembra indicare l’appellativo “magistro” posto accanto al suo nome nel frontespizio del manoscritto di Parigi. Questo riferisce anche che tradusse il libro di Ibn Jazla proprio a Venezia (aiutato forse da un mercante di madrelingua araba), città che intratteneva frequenti rapporti commerciali da un lato con Cremona e Crema, dall’altro con l’Oriente. Il Liber de ferculis et condimentis, più che nell’ambito di una scuola di traduttori dall’arabo (come quella che dovette esistere a nel monastero di S. Lucia a Cremona sulla scorta del grande traduttore dall’arabo Gerardo da Cremona) è collocabile nella cornice di quella cultura medica che si era impiantata nelle Università di Bologna e Padova. Sul frontespizio del Liber si legge “translatus in Veneciis a magistro Jambobino Cremonensis ex arabico in latinum”: e a Venezia, dove Giambonino traduceva, doveva essere ben conosciuto il Cammino di Jazla, che sul finire del Duecento rappresentava la più completa enciclopedia di tutti i prodotti alimentari e medici disponibili sui mercati orientali (con tanto di caratteristiche merceologiche, paese di provenienza, applicazioni terapeutiche, preparazione, grado di efficacia e rimozione del danno). Insomma anche i ravioli, compresi i tortelli cremaschi e marubini (“nemici” di vecchia data), potrebbero con buona probabilità vantare una discendenza comune, arabo-persiana o comunque riconducibile ad un contesto gastronomico orientale.
E che dire poi di molte ricette “arabeggianti” racchiuse nel De honesta voluptate et valetudine (“Il piacere onesto e la buona salute”), composto nel 1475 dall’umanista piadenese Bartolomeo “Platina” Sacchi? (leggi l’approfondimento). Dal riso con latte, mandorle e noce moscata, a certe frittelle fatte con mandorle, latte, albume e acqua di rose, il ricettario del Platina contiene rielaborazioni da ricette di Butlan e Jazla, nonché chiari riferimenti al Compendio delle vivande (Kitab al-Tabikh) del medico Al-Baghdadi, vissuto nel XIII secolo (due secoli dopo Butlan e Jazla): ed in ciò non v’è nulla di strano, dato che i piatti inseriti provengono infatti dal ricettario di Martino de Rubeis, che si era a sua volta basato su ricettari che riprendevano ricette arabe. Basta scorrere il De honesta voluptate fermandosi alla voce “Pasticcio in olla” (Pastillus in olla), per leggere la ricetta di un ripieno di carne inserito in sfoglia all’uovo che è in tutto e per tutto simile al Mudacathat e al Sambusuch, di cui si diceva sopra, descritto nelle ricette di Jazla e Butlan. Del resto, gli stessi presupposti rinascimentali sui quali si incardina il compendio del grande umanista e letterato piadenese non differiscono poi molto dalle premesse che stavano alla base della dietetica umorale islamica, fiorita in numerosi compendi analitici dall’Andalusia a Baghdad tra l’VIII e l’XI sec. d.C.: ovvero, il cibo inteso come elemento al centro d’interessi che fanno riferimento alla medicina, alla cura del corpo e al desiderio di “star bene” (in latino, appunto, valetudo).
E come omettere che proprio un cremonese, Gerardo da Cremona, fu il più grande traduttore dall’arabo del XII secolo dopo Costantino l’Africano. Gerardo, attivo a Toledo dal 1134 al 1178, tradusse oltre 80 opere di scienziati musulmani. E dopo la morte di Gerardo nel 1187, suo nipote Pietro trasportò la sua ricchissima biblioteca di traduzioni dall’arabo nell’allora convento di Santa Lucia a Cremona; dove con ogni probabilità si radicò in seguito anche la tradizione della grande scuola toletana dei traduttori dall’arabo. Forse può essere stato anche per questo che nel 1220 il “filoislamico” Federico II di Svevia elesse Cremona come capitale del Nord e luogo dei propri lunghi soggiorni: nella nostra città doveva infatti già esistere una copiosa biblioteca di testi arabi tradotti ed uno studium di intellettuali ed eruditi conoscitori della lingua e della tradizione arabo-persiana. Quella biblioteca purtroppo dovette smembrarsi e perdersi lentamente nel tempo (nel XIII secolo già si contavano numerosi ammanchi dai cataloghi, dato che il prestito era molto meno “controllato” di oggi), ma qualcosa della tradizione araba dovette sopravvivere, nella gastronomia, nell’architettura e anche nella scienza, se è vero che alla scuola di Gerardo appartennero, o vi attinsero, Rolando da Cremona e quell’Adamo da Cremona che, tra il XII e il XIII secolo, scrisse il De regimine iter agentium vel peregrinantium in occasione della crociata del 1228 allo scopo di fornire a Federico II alcune regole di ordine alimentare e igienico da osservare durante i viaggi e le campagne militari. Adamo attinse per lo più al Canone di Avicenna per aspetti che privilegiano un trattamento medico rispetto a quello chirurgico, come ad esempio nella descrizione della flebotomia, ripresa alla lettera dal Canone I 4, 20 arricchita da ampie sezioni riguardanti l’applicazione delle coppette e delle sanguisughe, tratte sempre da due capitoli successivi del libro I, il medico cremonese contribuisce all’introduzione in campo terapeutico di considerazioni nuove, diverse da quelle presenti nei testi latini diffusi in Occidente, che avrebbero avuto profonde conseguenze intellettuali e sociali nella medicina dotta.
Proseguendo sui rapporti tra Cremona e gli arabi, non andrebbe neppure dimenticato che, nel 1249, durante la sanguinosa battaglia di Cortenuova, i fanti “falcati” cremonesi, armati di micidiali scuri ammanicate (manaria falcata), vennero affiancati proprio da squadroni dei temutissimi arcieri saraceni di Lucera, agli ordini di Federico II di Svevia.
Lo stesso imperatore Federico II soggiornò quasi 16 volte a Cremona, che aveva eletto capitale del Nord Italia “pro tempore” e propria corte dal 1220 al 1250, quando la nostra città era tra le più potenti della Pianura Padana e lo aveva accolto salvandogli la vita. A Cremona Federico fece il suo ingresso trionfale sul un carro trainato da un elefante che si era procurato presso i Saraceni (che avrebbe utilizzato anche nell’assedio di Pontevico). In Lombardia aveva fatto arrivare anche «dromedari e cammelli, con molti leopardi, girifalchi e astori», come riporta il francescano di Parma Salimbene de Adam nella sua Cronica. E forse queste non furono certo le uniche meraviglie che l’imperatore fece giungere nella pianura Padana dalle calde terre dell’Islam.
Proprio quel sovrano “italo-svevo” infatti, sfegatato amante della cultura arabo-persiana (inclusa quella gastronomica) «conosceva perfettamente la lingua araba e i suoi poeti, ed era stupefacente la sua familiarità con la filosofia e la logica, come con la matematica, la farmaceutica e tutte le altre discipline» (come scrisse Ernst Kantorowicz, uno dei massimi studiosi di Federico). Come astronomo e filosofo dell’imperatore, a Michele Scoto era subentrato un arabo, Teodoro d’Antiochia (uscito perdente da una dottissima disputa avuta nel nel 1238, durante l’assedio di Brescia, con l’agguerrito domenicano Rolando da Cremona). Oltre a ciò, l’imperatore si era circondato di una ristretta cerchia di intellettuali e studiosi musulmani ed ebrei provenienti dai grandi califfati abbasidi di Baghdad (medici, gastronomi, spezieri, cuochi, ecc.) che lo attorniavano anche nei suoi lunghi soggiorni a Cremona… Come ha dimostrato Anna Martellotti, fu proprio con Federico che venne operata una sintesi coerente di ricette arabe rivisitate secondo i gusti occidentali, senza rinunziare alla tradizione latina nella predilezione per i farinacei e le verdure. La corte federiciana (anche quella di Cremona) divenne insomma un crogiolo in cui si incontrarono e si fusero magistralmente la cultura latina Occidentale e quella araba. E proprio l’apporto della cultura araba a Cremona sarebbe un tema interessante per uno studio approfondito e rigoroso di cui la nostra città purtroppo soffre tutt’ora la mancanza.
Perché la storia è storia al plurale, storia di fatti, di libri, di culture e di persone. Perché anziché proporre di insegnare nelle scuole lombarde i romanzi di Tolkien per “riscoprire le nostre radici celtiche” (proposta che era spuntata qualche anno fa anche a Cremona) sarebbe meglio insegnare quanto l’Occidente deve all’Islam e all’Oriente in termini di astronomia, chimica, idraulica, medicina, gastronomia, lessico, poesia e filosofia (magari andando oltre i soliti due inflazionatissimi Avicenna e Averroè). Ma soprattutto perché, torrone o altro, le liste d’arruolamento sono pericolose quanto quelle di proscrizione.
di Michele Scolari
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18 novembre 2013 at 19:28
Siamo padani non arabi! Ricordate: padani! 🙂
18 novembre 2013 at 19:30
menomale che berlusconi aveva chiamato l’islàm una razza inferiore. va’ che roba…
22 novembre 2013 at 14:17
Una buona volta si sente anche quella storia che sui libri non leggi. Perché non fare un libro di queste cose?
22 novembre 2013 at 14:20
quella del torazzo la sapevo, ma torrone e marubini no, e in effetti nona vevo mai notato neanche le somiglianze tra i campanile di crema e le torri mudejar ma a guardare bene danno da pensare. leggete il link sulle origini arabe del torrone, sconvolgente. peccato che negli approfondimenti tv sulla festa del torrone non senti mai parlare di queste cose
22 novembre 2013 at 14:22
ho a casa una copia delle ricette di Platina ed è vero, c’è dentro una tipo di pasta ripiena che ricorda quella specialità araba e tante altre cose
22 novembre 2013 at 14:24
La mostarda è sicuramente di origine araba, i cremonesi o i mantovani si sono limitati ad aggiungere la senape
9 dicembre 2013 at 12:25
Vi meravigliate che queste notizie non si vedono o si leggono negli approfondimenti sulla tradizione storica e gastronomica cremonese? Dal torrone ai marubini, al torrazzo ai tortelli, da decenni a Cremona si tende a mantenere l’estabilishment. Mi viene da ghignare quando leggo i servizi di certi “storici” locali, che scrivono cose che puoi tranquillamente trovare dappertutto, persino su wikipedia. Cremona per certi versi è ancora guelfa, o “neoguelfa”. Ai salotti che dominano la città certe notizie non fanno piacere.
12 dicembre 2013 at 18:44
Purtroppo Redo ha ragione, e per estabilishment si intendono le amministrazioni di tutti i colori politici, anche di sinistra, che magari su queste cose dovrebbero essere più attenti, invece anche sotto Corada non ho visto grandi svolte “eretiche” anche nella cultura (per non parlare del periodo “De Bona”)
12 dicembre 2013 at 18:48
Io dico che è inutile lambiccarsi il cranio su ste robe, tanto si sa che Cremona è così, è una pozza stagnante, e quelli che hanno voluto concretizzare le proprie idee o l’hanno fatto “in proprio” o sono andati a presentarle altrove, fuori, ma non qui sotto il Torrazzo. Qui torniamoci a trovare gli amici e i parenti, magari a mangiare il torrone e i marubini o gli gnocchi di S. Rocco, poi basta. Mi hanno chiesto più volte “ma torneresti a Cremona?”, e io ho risposto puntualmente quel che ho detto sopra: a ritrovare i parenti e i sapori del desco famigliare. Basta, per me Cremona è diventata solo questo